Da tempo si attende che la Corte di Giustizia dell’UE si pronunci sulla conformità delle disposizioni legislative dettate dai singoli Stati membri, laddove prevedono l’applicazione congiunta per un medesimo fatto di sanzioni amministrative e penali, al noto principio di ne bis in idem.
Ci si è chiesti, infatti, se le normative interne non siano in evidente contrasto con quanto sancito nel Protocollo n. 7 integrativo della CEDU secondo cui “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato” e con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ove si ribadisce che “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”.
Ciò che sta richiamando l’attenzione dei giudici europei è la disciplina prevista dal legislatore italiano per l’ipotesi di omesso versamento dell’IVA per la quale sono suscettibili di applicarsi unitamente sia la sanzione amministrativa sancita dall’art. 13 del d.lgs. 471/97, pari al 30% dell’imposta non versata, sia la reclusione qualora il debito superi la soglia di punibilità di 250 mila euro secondo quanto stabilito dall’art. 10ter del d.lgs. 74/2000.
A tal proposito rilevano le conclusioni esposte recentemente dall’Avvocato Generale dinanzi alla Corte di Giustizia UE in occasione dei procedimenti C-217/15 e C-350/15 ove si è precisato che il principio del ne bis in idem non vale nelle ipotesi in cui siano diversi i soggetti destinatari delle sanzioni. In questi casi si è sostenuto che mentre alla persona giuridica si applica la sanzione amministrativa, al rappresentante legale della stessa può essere invece contestato il reato tributario configurabile e come tale il medesimo può essere assoggettato alla relativa sanzione penale.
Sul tema si ricorda che già nella sentenza del 26 febbraio 2013, Akerberg Fransson C-617/10 si è sostenuto che il principio del ne bis in idem “non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia IVA, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale, qualora la prima sanzione non sia di natura penale, circostanza che dev’essere verificata dal giudice nazionale”.
Per appurare quando una sanzione tributaria presenti le caratteristiche proprie di una sanzione penale, è necessario far riferimento ai c.d. “criteri di Engel” elaborati nel 1976 dalla Corte di Strasburgo in occasione della vicenda Engel e altri c. Paesi Bassi (richiamati da ultimo dalla sentenza Grande Stevens contro Italia del 4 marzo 2014) che impongono al giudice nazionale di verificare innanzitutto la definizione giuridica attribuita formalmente dal diritto interno, di seguito di accertarsi sull’effettiva entità penale degli interessi in gioco valutandone la natura pubblicistica, ed infine di esaminare la concreta finalità repressiva e general-preventiva perseguita tenendo altresì conto della severità della stessa.
Con riguardo invece al procedimento non ancora concluso C-524/15 l’Avvocato Generale, nel parere reso informalmente lo scorso 12 gennaio 2017, ha sostenuto che in tal caso verso soggetto già colpito dalla sanzione amministrativa nei cui confronti si sia successivamente instaurato un procedimento penale nel quale gli sia stato contestato di aver commesso il reato di omesso versamento dell’Iva per l’anno 2011 possa ritenersi pacificamente applicabile il principio del ne bis in idem e pertanto possa valere il diritto a non essere processato e punito per due volte con riferimento ad un medesimo fatto.
Secondo quanto illustrato dall’Avvocato Generale la sanzione formalmente amministrativa fissata dall’art. 13 del d.lgs. 471/97 è idonea in realtà a configurarsi come una sanzione sostanzialmente penale per alcune precise ragioni evidenziate. È stato infatti sottolineato come ad avvalorare la natura penale dell’illecito sia il fatto che la relativa sanzione amministrativa si prefigga, in realtà, di prevenire e reprimere le condotte illecite e non si proponga invece solo di assicurare il risarcimento del danno patrimoniale cagionato.
Inoltre è stato rilevato come, superando la qualificazione giuridica attribuita dal legislatore interno, i beni giuridici presi in considerazione in sede amministrativa siano generalmente oggetto di tutela da parte delle norme penali e che la discreta entità delle sanzioni amministrative stabilite per le ipotesi di omesso versamento di imposte non escluda a priori che le predette sanzioni abbiano in realtà carattere penale.
Non si può non notare che le osservazioni espresse dall’Avvocato Generale, qui richiamate, sembrano apparire in contrasto con l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione (sent. n. 37424/2013) secondo cui “tra l’illecito penale di cui all’art. 10ter e l’illecito amministrativo di cui all’art. 13 co. 1 d.lgs. 471/97 intercorre un rapporto non di specialità, ma di progressione illecita, che comporta l’applicabilità congiunta delle due sanzioni”.
Il tanto atteso intervento della Corte di Giustizia dell’UE sarà senz’altro utile per sciogliere i nodi nonché per individuare una soluzione pratica che indichi al giudice interno una precisa modalità di interpretazione e di applicazione della normativa nazionale che sia conforme ai principi sanciti a livello europeo e che consenta così di tutelare i soggetti, siano essi persone fisiche o giuridiche, dall’eventualità di essere puniti due volte per un medesimo fatto sia sotto il profilo penale che amministrativo.
Si ricorda infine che è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, l. 2 agosto 2008, n. 130, nella parte in cui autorizza alla ratifica e all’esecuzione il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea così come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona. Nella sentenza della Grande Sezione dell’8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, la Corte di Giustizia dell’UE ha sostenuto che l’art. 325, § 1 e 2, T.F.U.E. impone al giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, co. 3, e 161, co. 2, c.p., quando ciò gli impedisca di “infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”.
A tal proposito, la Corte Costituzionale ha deciso di sottoporre alcune questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’UE con l’ordinanza n. 24 del 2017 sulla quale tuttavia ci soffermeremo nel prossimo articolo, in cui commenteremo insieme e analizzeremo gli elementi più rilevanti oggetto di discussione.