Le attività commerciali continuano, con rare eccezioni, a restare chiuse per effetto dei provvedimenti restrittivi legati al contenimento dell’emergenza sanitaria e, per tanti operatori economici, gli oltre 15 mesi di lockdown iniziano a rappresentare un lasso temporale di stop non più sostenibile.
In questo modo, la diatriba tra proprietari e inquilini degli immobili commerciali, in parte spostatasi in questi mesi dinanzi ai Tribunali di merito, si fa sempre più accesa, così come la discussione nell’Esecutivo, alle prese in queste ore con la stesura del Decreto Sostegni-bis.
Sul punto, non appare superfluo sottolineare come le tante azioni contenziose radicate in questi mesi da proprietari e gestori di attività commerciali, siano alla decisione dei Giudici nell’ambito di un quadro normativo – caratterizzato da numerosi interventi del Legislatore d’emergenza tesi a mitigare i negativi impatti conseguenti alla forzata chiusura di attività della specie – tutt’altro che chiaro.
In questo opaco contesto, il Tribunale di Roma, con una Sentenza di agosto 2020, in ossequio ad un’interpretazione assolutamente coerente e comune ad ogni latitudine d’Italia, ha statuito l’assoluta inadeguatezza del credito d’imposta al 60% sui canoni di locazione di cui alla Legge n. 27/2020, rimandando a necessari e doverosi nuovi accordi tra le parti l’affermazione della generale clausola “di buona fede e solidarietà sancito dall’art. 2 della Carta costituzionale al fine di riportare il contratto entro i limiti dell’alea normale (…)”.
In tale chiave prospettica, sono intervenute altre pronunce di merito, tra cui citiamo quella del Tribunale di Venezia in data 28.07.2020, che hanno qualificato la chiusura dell’attività commerciale da lockdown quale impossibilità parziale, rimanendo impregiudicata per la parte conduttrice quantomeno la funzione di ricovero delle attrezzature e delle materie prime relative all’attività di ristorazione, da cui discende la “necessità di determinare nel pieno contraddittorio delle parti l’eventuale percentuale di riduzione del canone”.
Tale condivisibile orientamento giurisprudenziale si pone quale ragionevole mitigazione di una posizione, pur profilatasi in dottrina, con riferimento alla possibilità di invocare la chiusura forzata da D.P.C.M. quale causa di forza maggiore per la mancata esecuzione della prestazione contrattualmente assunta, secondo i canoni ermeneutici disegnati dagli artt. 1256 e ss. del cod.civ.
Sul punto, ancora, la sentenza 28/10/2020 del Tribunale di Macerata, mutuando tale condivisibile posizione di equilibrio, ha stabilito che “il rispetto delle norme di contenimento costituisce solo astratta causa di forza maggiore, la cui incidenza nel caso concreto deve essere dimostrata dal conduttore”.
Questa, tuttavia, non è l’unica criticità che anima la diatriba tra locatori e conduttori, dovendosi considerare l’annosa questione delle prescrizioni introdotte dal D.L. 31 dicembre 2020, n. 183, (c.d. Decreto Milleproroghe), che ha confermato il blocco dell’esecuzione degli sfratti per morosità fino al 30.06.2021 a causa dell’emergenza Covid.
In particolare l’articolo 13, comma 13, del decreto ha disposto che “la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, prevista dall’articolo 103, comma 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, e’ prorogata sino al 30 giugno 2021 limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze e ai provvedimenti di rilascio conseguenti all’adozione, ai sensi dell’articolo 586, comma 2, c.p.c., del decreto di trasferimento di immobili pignorati ed abitati dal debitore e dai suoi familiari”.
In questi giorni, infatti, il dibattito mediatico, sicuramente influenzato dalla protesta degli esercenti attività di ristorazione, si è incentrato sulle possibilità di proroga del blocco degli sfratti, invocato da più parti per fronteggiare le chiusure forzate ripartite dall’autunno 2020.
A questa si è poi aggiunta un’ulteriore questione legata alla rinegoziazione dei contratti di locazione commerciale in esito alla pandemia ancora in atto.
Partendo dalla Relazione n 56 dello scorso 8 luglio della Suprema Corte di Cassazione, possiamo osservare come il tema della rinegoziazione del contratto di locazione commerciale, astrattamente resasi necessaria per effetto delle misure di chiusura imposte per prevenire e contrastare la pandemia da Covid 19, sia stata trattata dai Giudici di legittimità facendo leva sul vigente quadro giuridico, per come organicamente disegnato dal codice civile.
In particolare, nell’affermare finanche la possibilità di un intervento diretto sulle intese contrattuali da parte del Giudice investito della questione, la Suprema Corte di Cassazione ha richiamato, a favore della possibilità di rinegoziazione di un contratto divenuto insostenibile dal conduttore, i principi contenuti negli artt. 1374 cod. civ. (eterointegrazione correttiva secondo equità), art. 1467 cod. civ. (effetti sul contratto della mutazione degli assetti economici delle Parti) e art. 1375 cod. civ. (obbligo di buona fede oggettiva nell’esecuzione del contratto).
I Tribunali di merito sembrano, tuttavia, essersi stagliati su posizioni interpretative di maggiore tutela per i proprietari degli immobili, statuendo, come avvenuto in una recentissima pronuncia del Tribunale di Roma (Sentenza 15.01.2021, n. 771), che non sussiste, nel nostro ordinamento, un obbligo di rinegoziazione dei contratti divenuti svantaggiosi per taluna delle parti, ancorché in conseguenza di eventi eccezionali e imprevedibili, né un potere del giudice di modificare i regolamenti contrattuali concordati dalle parti nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, al di là delle ipotesi espressamente previste dalla legge.