L’insolvenza del patrimonio destinato

L’art. 2247 bis c.c. prevede la possibilità, per una società, di costituire uno o più patrimoni destinati in via esclusiva ad uno specifico affare: in tal caso, dunque, il costituende può disporre di siffatto strumento per sanare le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare, “nei limiti del patrimonio ad esso destinato” (art. 2447 – quinquies, II°, c.c.), permanendo tuttavia la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito.

L’art. 2247 quinquies c.c. stabilisce che la deliberazione istitutiva debba essere iscritta nel registro delle imprese: decorso il termine di sessanta giorni dall’iscrizione anzidetta, ovvero dopo l’iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento del tribunale di cui all’art. 2447 – quater, II° c., c.c., “i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare né, salvo che la parte spettante alla società, sui frutti o proventi ad esso derivanti”.

L’autonomia di cui gode il patrimonio destinato pone due questioni: innanzitutto, cosa accade se la società è in bonis ma il patrimonio in disamina risulta essere insolvente e, in secondo luogo, cosa succede se il patrimonio destinato diviene insufficiente in fieri nella realizzazione dell’affare.

Innanzitutto, vale la pena rilevare che, rimaste inattuate le disposizioni della legge delega n. 366/2001, la norma (unica) di riferimento è quella prevista dall’art. 2447 novies, II° c., c.c.: se le relative obbligazioni non sono state integralmente soddisfatte alle scadenze previste dalle parti, i creditori possano richiedere la liquidazione del patrimonio destinato.

In caso di insoddisfazione totale o parziale delle ragioni creditorie, solo all’apparenza questi ultimi resterebbero privi di tutela. A ben vedere, infatti, giusta previsione dell’art. 2447 – novies, III° c., c.c., sembrerebbe che i creditori del patrimonio destinato possano in ogni caso far valere le proprie pretese verso la società.

La possibilità illustrata apre la tematica inerente all’ipotesi in cui il patrimonio de quo fallisca ovvero si assoggettato a liquidazione concorsuale.

Nel vuoto legislativo, i cultori della materia non risulta che siano ancora giunti ad un’univoca visione del caso, stante da un lato la riferibilità dell’istituto fallimentare ai soli soggetti e, dall’altro lato, il fatto che l’eventuale costituzione del patrimonio crea un mero vincolo di destinazione.

Travalicare siffatti “confini” significherebbe rendere responsabile la società debitrice oltre la consistenza economica patrimoniale in esame (peraltro, non integrabile in tempo successivo alla costituzione del fondo) con conseguente aumento dei rischi di insolvenza della medesima.

Allo stato attuale, dunque, l’unico rimedio previsto per i creditori particolari è quello di richiedere la liquidazione del patrimonio destinato.

In via teorica, le alternative praticabili sarebbero le seguenti: a) a seguito di rendiconto finale, i beni originariamente segregati verrebbero a confluire nel patrimonio della società con la conseguenza che quest’ultima dovrebbe rispondere con l’intero patrimonio , stante anche lo scioglimento del vincolo cd. “segregativo”; b) il vincolo di destinazione sui beni originariamente segregati non verrebbe meno, ma permarrebbe comunque con gli ovvi limiti di cui all’art. 2247 quartier c.c..

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