L’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale: la relazione tra credito e bisogno della famiglia

Con il termine “fondo patrimoniale” il nostro ordinamento giuridico designa un complesso di beni immobili, mobili registrati o titoli di credito che ciascuno o ambedue i coniugi  oppure un terzo possono destinare a far fronte ai bisogni della famiglia; per famiglia, si badi bene, la legge intende quel nucleo formato dai coniugi e dai loro figli legittimi, legittimati o adottivi.

L’art. 170 c.c. dispone che “l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.

Dal tenore dell’art. 170 c.c. si ricava che la possibilità di aggressione dei beni e dei frutti da parte dei  creditori è limitata dalla oggettiva destinazione dei debiti assunti alle esigenze familiari, pertanto i beni  del fondo ed i loro frutti possono essere oggetto di esecuzione soltanto in caso di obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia.

In ogni caso l’esecuzione sui beni del fondo e sui loro frutti non può avere luogo per i debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

Nell’interpretare la nozione “di bisogni della famiglia”  la costante giurisprudenza ha accolto un’interpretazione assai ampia.

In particolare la sentenza della Corte di Cassazione del 7 gennaio 1984 n.134 ritiene che per bisogni del nucleo familiare debbano intendersi: “in virtù della solidarietà che caratterizza la famiglia,  [….]  non solo quelli comuni a tutti i componenti  del gruppo, ma anche quelli che promanano da fondamentali esigenze individuali, e così non solo l’abitazione, il vitto , il vestiario, le cure mediche, l’istruzione e l’educazione delle prole, ma anche il potenziamento delle capacità  lavorative dei membri della famiglia, escluse solo le esigenze di natura voluttuaria o caratterizzata da intenti meramente speculativi”., (vedasi anche Cass. 18 luglio 2003 n.11230; Cass. Civ.15 marzo 2006 n.5684).

La consapevolezza del creditore della estraneità del debito alle esigenze familiare deve sussistere al momento del perfezionamento della fonte dell’obbligazione e deve costituire oggetto di prova da parte di colui che si oppone all’espropriazione forzata.

In ogni caso deve essere infatti il debitore a provare che il creditore conosceva l’estraneità del credito ai bisogni della famiglia; ciò perché i fatti negativi non formano oggetto di prova ed anche perché esiste una presunzione di inerenza dei debiti ai detti bisogni.

Per quanto concerne i rapporti creditori nascenti tra l’ente impositore o della riscossione (Agenzia delle Entrate, Inail, Inps…) ed il debitore è un rapporto negoziale la cui unica e sola genesi la si riscontro nel mancato pagamento dei tributi da parte del creditori.

Pertanto i debiti tributari  non sarebbero collegati in modo immediato e diretto con le esigenze  familiari e quindi non legittimerebbero l’esecutività.

In conseguenza di ciò parecchie pronunce delle Commissioni Tributarie hanno ritenuto che manchi quell’inerenza immediata e diretta fra i crediti erariali e i bisogni della famiglia che nascono da una specifica obbligazione legale del tutto “esterna” ai bisogni familiari.

E’ irrilevante invece qualsiasi indagine riguardante l’anteriorità del credito rispetto alla costituzione del fondo, in quanto l’art. 170 c.c. non limita il divieto di esecuzione forzata ai soli crediti (estranei ai bisogni della famiglia) sorti successivamente alla costituzione del fondo, ma estende la sue efficacia anche ai crediti sorti anteriormente, salva la possibilità per il creditore, ricorrendone i presupposti, di agire in revocatoria ordinaria.

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