Con la Sentenza n. 6548 del 27 aprile 2012, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della deduzione dei costi di sponsorizzazione, soffermandosi sulla modalità di riparto dell’onere probatorio, tra Amministrazione finanziaria e contribuente, nella dimostrazione dell’inerenza delle spese sostenute dall’impresa.
Nel caso di specie, i giudici di primo e secondo grado, condividendo la tesi sostenuta dalla ricorrente, avevano considerato deducibili i costi di sponsorizzazione sostenuti dal distributore esclusivo per l’Italia di un determinato prodotto. Conseguentemente, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione, sottoponendo all’esame della Suprema Corte la questione della deducibilità o meno, da parte della società per azioni italiana, in qualità di mera utilizzatrice e distributrice del prodotto in Italia, dei costi di sponsorizzazione del marchio di cui era titolare la casa madre giapponese.
Secondo la Corte, per stabilire se tali costi siano o meno deducibili è necessario valutare la loro eventuale inerenza all’attività d’impresa, a norma dell’art. 109, quinto comma, del TUIR. A tal fine, i Supremi Giudici sottolineano, innanzitutto, l’esistenza di una nozione pre-giuridica di origine economica del concetto di inerenza, legata all’idea del reddito come entità necessariamente calcolata al netto dei costi sostenuti per la produzione dello stesso. In forza di detta interpretazione, è, pertanto, inerente tutto ciò che, sul piano dei costi e delle spese, appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo indiretto.
Abbandonando il piano economico per passare a quello fiscale, i Giudici evidenziano, poi, come l’inerenza di un onere o di un costo all’impresa, dando luogo ad una componente negativa del reddito, si traduca inevitabilmente in un risparmio di imposta, giacché esso viene ad abbattere il reddito imponibile netto, in misura corrispondente all’entità della spesa o del costo deducibili.
La sentenza in commento, dopo aver così delineato il concetto di inerenza, esamina la questione del riparto dell’onere probatorio, confermando il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul contribuente la prova circa l’esistenza dei fatti e delle circostanze che danno vita ad oneri e/o costi deducibili, nonché riguardo all’inerenza degli stessi rispetto all’attività professionale o commerciale svolta.
Tuttavia, tale regola vale soltanto qualora sia dubbio il collegamento tra il costo e l’attività svolta dall’impresa, ma non anche quando si tratti di spese necessarie alla produzione del reddito o fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale; in quest’ultima ipotesi la prova dell’inerenza del costo grava, infatti, sull’Amministrazione finanziaria.
Prima di verificare se i costi per le sponsorizzazioni siano realmente inerenti all’attività imprenditoriale di utilizzazione del marchio e di distribuzione dei relativi prodotti svolta dalla società contribuente, la Suprema Corte precisa come il contratto di sponsorizzazione ricomprenda tutte quelle ipotesi in cui un soggetto, detto “sponsorizzato”, si obblighi, dietro corrispettivo, a consentire ad altri (“sponsor”) l’uso della propria immagine pubblica e del proprio nome, per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marchiato, ovvero ancora a tenere determinati comportamenti di testimonianza in favore del marchio o del prodotto oggetto della veicolazione commerciale. Nella sostanza, la sponsorizzazione che, di fatto, si concretizza nella commercializzazione del nome e dell’immagine dell’impresa sponsorizzata, si estrinseca in una forma di pubblicità indiretta, consistente nella promozione del marchio o del prodotto che si intende lanciare o diffondere sul mercato.
Secondo la sentenza in commento, l’inerenza ai fini fiscali dei costi di sponsorizzazione all’attività di impresa, qualora lo “sponsor” sia lo stesso titolare del marchio o il produttore del bene da promuovere, non pare essere dubitabile. Infatti, la pubblicizzazione del marchio o del prodotto si traducono innegabilmente in un potenziale vantaggio economico diretto per l’impresa sponsorizzante.
Maggiori perplessità possono, invece, porsi nel diverso caso in cui lo “sponsor” non sia il titolare del marchio o il produttore del bene a cui l’attività pubblicitaria fa riferimento. In tale ipotesi, infatti, potrebbe porsi il giustificato dubbio circa la possibilità che l’attività di sponsorizzazione sia destinata a giovare al diverso soggetto produttore o titolare del marchio che si intende promuovere con la sponsorizzazione.
Tuttavia, come si osserva nella sentenza n. 6548/2012 in commento, dal complesso delle caratteristiche concernenti il contratto di sponsorizzazione non può desumersi che esso debba indefettibilmente essere concluso da uno “sponsor” che sia egli stesso il produttore industriale di una determinata merce, ovvero il titolare del diritto di marchio da veicolare.
Ne deriva, pertanto, che, “nel caso in cui lo “sponsor” sia il distributore esclusivo per l’Italia di un determinato prodotto, dalla sua relazione d’affari con il produttore e dal fatto che anche quest’ultimo tragga vantaggio dalla maggiore diffusione del suo marchio presso i consumatori, non può trarsi automaticamente la conclusione che egli stia agendo per conto altrui e non nel proprio interesse, dovendo – per contro – tale eventualità essere accertata in fatto, nelle singole fattispecie concrete”.
Nel caso concreto oggetto di giudizio, essendo stato accertato che la casa madre giapponese aveva conferito all’impresa italiana l’incarico di distributore esclusivo in Italia, per l’attività di importazione, vendita e distribuzione dei prodotti contrassegnati con un marchio non di proprietà di quest’ultima, ne discenderebbe la connaturale inerenza dell’attività di pubblicizzazione, sia pure indiretta, dei prodotti da parte della società italiana rispetto all’attività commerciale svolta dalla stessa, in quanto distributore in via esclusiva sul territorio nazionale.
Alla luce di tali considerazioni, la suprema Corte addiviene alla conclusione che la deduzione dei costi di sponsorizzazione, sia ai fini delle imposte sui redditi sia ai fini IVA, debba considerarsi legittima, in quanto avrebbe dovuto gravare sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare che tali costi avessero inciso positivamente, in tutto o in parte, sull’attività della casa madre estera.