L’avvocato non è tenuto a consigliare una strategia difensiva atta ad aggirare prescrizioni di legge

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 4422 del 23 febbraio 2011, ha affrontato la delicata questione dell’eventuale sussistenza di responsabilità professionale del difensore che abbia omesso di consigliare al cliente una strategia difensiva atta ad aggirare prescrizioni di legge.

Il caso affrontato dalla Suprema Corte è, in particolare, quello di un avvocato che, incaricato della presentazione di una dichiarazione di successione in prossimità della scadenza del relativo termine ed in mancanza della documentazione necessaria per il tempestivo adempimento della prestazione, abbia mancato di consigliare al cliente di accettare l’eredità con beneficio d’inventario, impedendo in tal modo allo stesso di beneficiare della proroga prevista per tale ipotesi dalla legge.

Particolare importanza nell’attività dei prestatori d’opera professionale sta, infatti, sempre più assumendo l’obbligo di informazione nei confronti del cliente. Nello specifico, l’avvocato, malgrado l’obbligazione assunta sia di mezzi e non di risultato, deve adempiere sia all’atto del conferimento dell’incarico che nel corso dello svolgimento dello stesso anche al dovere, da intendersi nel senso di un’obbligazione accessoria rispetto a quella principale d’opera, di mantenere costantemente informato il cliente in ordine al compimento di tutte le varie attività, anche di natura discrezionale, che, alla luce dell’esigenza di impiego della dovuta diligenza, appaiano necessarie o anche solo opportune affinché l’interesse del cliente possa realizzarsi. Gli obblighi informativi, in altre parole, non riguardano solo la valutazione del caso, ma si ampliano fino a coprire tutte le fasi dello svolgimento dell’incarico.

Un ulteriore dovere di informazione grava poi, parallelamente, sul cliente, il quale deve considerarsi tenuto a comunicare al professionista tutte le informazioni che gli vengano richieste relativamente alla vicenda che desidera sottoporre al suo esame, affinché il professionista medesimo possa, con la dovuta diligenza professionale, valutare correttamente la situazione.

Gli obblighi di informazione a carico del professionista e del cliente costituiscono espressione del principio di comportamento secondo buona fede. La loro violazione può, pertanto, costituire fonte non solo di responsabilità precontrattuale – e dunque, come ritiene la maggior parte della giurisprudenza, extracontrattuale –, ma anche contrattuale. Il criterio da seguire nella valutazione del comportamento del professionista è quello indicato all’art. 1176, 2° comma, c.c., ai sensi del quale la condotta deve essere commisurata alla natura dell’attività esercitata, sicché la diligenza che il consulente deve impiegare nello svolgimento della propria attività è quella media, cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione medie, a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità del professionista è attenuta configurandosi, secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave. Quest’ultima norma, tuttavia, potrà trovare applicazione solamente con riguardo alla prestazione principale, e non all’obbligazione di informazione relativa a tale prestazione, in quanto il dovere informativo, pur entrando a far parte del sinallagma contrattuale, rimane pur sempre un’obbligazione accessoria e distinta dalla principale, il cui adempimento non implica mai la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.

L’avvocato, pertanto, risponde dei danni cagionati al suo assistito quando violi i doveri che rientrano nell’esercizio della sua attività professionale ed, in particolare, del dovere di diligenza come sancito anche dall’art. 8 del Codice Deontologico Forense.

Gli obblighi informativi non si estendono, però, all’impiego degli istituti per scopi giuridici diversi rispetto alle loro tipiche finalità. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha, infatti, delimitato l’area della prestazione esigibile nell’esercizio di una consulenza, la quale non può mai spingersi fino a suggerire al cliente l’utilizzo di un istituto giuridico per uno scopo elusivo di norme di legge, piegandolo ad esigenze particolari dello stesso e divergenti rispetto a quelle per cui è stato previsto dall’ordinamento.

In concreto, è vero che consigliando al cliente di accettare tempestivamente l’eredità con beneficio di inventario, si sarebbe procrastinato, per altri 6 mesi, il termine finale per la presentazione della denuncia di successione a fini fiscali. Nondimeno, i Giudici di legittimità hanno osservato come scopo precipuo dell’accettazione beneficiata sia quello di mantenere distinti i patrimoni del de cuius e dell’erede così da evitare responsabilità ultra vires e non quello, seppur indirettamente conseguente, di eludere il termine stabilito per una denuncia fiscale.

Ben si comprende, a questo punto, la posizione assunta dalla Corte di Cassazione: se da un lato, infatti, si è assistito, negli ultimi tempi, a un ampliamento considerevole della responsabilità dell’avvocato per difetto di informazione, essendo il relativo obbligo ancorato al principio di buona fede, non si poteva giungere al punto di riconoscerne la sussistenza anche laddove il consiglio da fornire, sotto specie di informazione, avrebbe avuto come oggetto la tenuta di un comportamento contrario alla buona fede, intesa come regola, appunto, di buon comportamento.

Un limite comunque invalicabile è, infatti, segnato dall’obbligo di buona fede, che, come meglio specificato dall’art. 36 del Codice Deontologico Forense, impone all’avvocato di non consigliare consapevolmente “azioni inutilmente gravose”, o “comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità” e, più in generale, soluzioni che espongano la clientela a rischi o responsabilità gravi e ab origine prevedibili.

Da quanto detto emerge come il legale non sia tenuto a consigliare scorciatoie o sviamenti; ma, allo stesso modo, non è responsabile, se nell’interesse del cliente, consigli a quest’ultimo condotte elusive (ovviamente non illegittime e tanto meno illecite). Almeno fino a quando non facesse breccia, anche con riferimento agli avvocati, un’impostazione emersa in campo fiscale, secondo cui i giudici puniscono le manovre fiscali elusive come “abuso del diritto”. A oggi non si vedono segnali di questo tipo e quindi l’elusione degli istituti giuridici non incontra limiti nelle sentenze dei giudici e nelle pronunce disciplinari. Anzi, si può osservare l’affermazione di filoni di sentenze, con le quali si pretende dall’avvocato la scelta della migliore strategia processuale funzionale agli interessi del cliente. Si nota nelle decisioni della Cassazione la pretesa di un sempre maggior rigore e di una maggiore diligenza professionale.

Affermazioni divergenti sono state, invece, effettuate in tema di attività stragiudiziale, la quale generalmente si risolve nella prestazione di attività di risultato. In questi casi, il professionista si impegna a offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di determinare le proprie scelte. (cfr. Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2002, n. 16023).

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