La tutela dei marchi nel settore agroalimentare: da strategia commerciale a reale valore aggiunto

La disciplina di tutela delle produzioni agroalimentari nell’Unione ha come riferimento il Regolamento UE n.1308/2013 del Consiglio e del Parlamento Europeo e il Regolamento UE 1151/2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari. Con specifico riferimento alla tutela dei marchi collettivi, il paradigma legislativo è invece costituito dal Regolamento n. 207/2009.

De iure condito, DOP e IGP sono marchi collettivi e, in quanto tali, accompagnati da un generale divieto di evocazione, usurpazione o imitazione delle denominazioni geografiche protette da parte di prodotti competitivi ed astrattamente confondibili

Aspetto di particolare rilevanza stabilito dal nuovo Regolamento è l’obbligo da parte degli Stati membri di tutelare i marchi registrati non su iniziativa di parte, ma ex officio, sulla base di specifici piani di intervento. Quest’ultimo tema è davvero di grande importanza per quei Paesi, come l’Italia, che possono vantare le IG più famose e copiate al mondo.

Con circa 1.180 Denominazioni distribuite nei 27 Paesi europei suscita qualche dubbio come sia realmente possibile “prevenire”, ma soprattutto “far cessare” l’uso illecito della Denominazione sul proprio territorio nazionale.

Il rinforzato sistema di tutele per le produzioni DOP e IGP mira ad impedire lo sviluppo di insidiose prassi astrattamente idonee ad indurre in inganno il consumatore in ordine alla vera origine del bene, attribuendo ai Consorzi una funzione simile a quella del titolare di un marchio collettivo, enunciando un generale divieto di evocazione, usurpazione o imitazione delle denominazioni geografiche protette da parte di prodotti competitivi ed astrattamente confondibili.

Sull’argomento numerosi sono stati gli arresti giurisprudenziali, anche della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che – con la recente Sentenza in data 05 marzo 2020, n.766 – è ritornata sull’annosa questione del valore assoluto del marchio collettivo, pronunciandosi sul ricorso proposto dalla Foundation for the Protection of the Traditional Cheese of Cyprus, tendente all’annullamento della sentenza del Tribunale dell’Unione europea del 25 settembre 2018. Nell’impugnata sentenza, il Tribunale aveva confermato la legittimità del provvedimento con cui l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) aveva respinto l’opposizione alla registrazione di un marchio collettivo avanzata proprio dall’Ente ricorrente.

Nella richiamata pronuncia la Corte di Giustizia UE ha avuto modo di rammentare l’obbligatorio rispetto del principio secondo cui “il marchio richiesto è rifiutato se, a causa della sua identità o somiglianza col marchio anteriore e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi designati dal marchio richiesto e dal marchio anteriore, sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato”.

Nella specie, il marchio anteriore era costituito dal marchio collettivo dell’Unione europea HALLOUMI, che la ricorrente aveva registrato per la tutela della produzione tipica di formaggi nell’isola cipriota.

Nella sentenza in argomento viene stabilito che “nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il marchio anteriore è un marchio collettivo la cui funzione essenziale è, conformemente all’articolo 66, paragrafo 1, del regolamento n. 207/2009, quella di distinguere i prodotti o i servizi dei membri dell’associazione titolare da quelli di altre imprese (…), il rischio di confusione, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, deve essere inteso come il rischio che il pubblico possa credere che i prodotti o servizi coperti dal marchio anteriore e quelli coperti dal marchio richiesto provengano tutti dai membri dell’associazione titolare del marchio anteriore o, se del caso, da imprese economicamente legate a tali membri o a tale associazione”.

A tale proposito, la Giurisprudenza unioniale fa rilevare che i marchi collettivi dell’Unione europea devono possedere un carattere distintivo.

Da qui, le statuizioni dei Giudici di Lussemburgo, secondo cui – anche a supporre che il marchio collettivo dell’Unione europea oggetto della controversia faccia implicitamente riferimento alla provenienza geografica cipriota dei prodotti in questione – un marchio collettivo deve comunque svolgere la sua funzione essenziale, ossia distinguere i prodotti o i servizi dei membri dell’associazione che ne è titolare da quelli di altre imprese, divenendo in tal modo il carattere distintivo di tale marchio un elemento rilevante ai fini della valutazione dell’esistenza di un rischio di confusione, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009.

Partendo da tali assunti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha annullato la sentenza del Tribunale, ritenendo che non fosse stato debitamente considerato l’interdipendenza dei marchi in questione e che la propria pronuncia cassata si fosse basata sull’errata premessa circa l’assenza di un rischio di confusione in presenza di un marchio debole anteriore, e ciò anche avuto riguardo alla sua natura collettiva che, per quanto sopra illustrato, ne acuisce il rischio di confusione e ne amplia, di fatto e per quanto la Corte sia attenta ad affermare testualmente tale principio, il perimetro di tutela.

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