La responsabilità penale dell’amministratore di fatto di una società fallita

In caso di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle previsioni di cui agli artt. 216 e 223 L. Fall. devono essere individuati con riferimento alle funzioni concretamente esercitate all’interno della società e non sulla base delle mere qualifiche formali.

La Cassazione ha ribadito tale principio, già espresso in precedenti pronunce (cfr. Cass. sent. n. 19145/2006), nella sentenza n. 35498 del 26 agosto 2013 con la quale ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’imputato, condannato in primo ed in secondo grado per truffa aggravata, bancarotta fraudolenta impropria e documentale in relazione al fallimento di una società ove lo stesso svolgeva l’attività di esperto della merce commercializzata (ovvero funghi porcini).

Nei primi due gradi del giudizio i Giudici avevano ritenuto che egli avesse operato quale amministratore di fatto, in concorso con l’amministratore di diritto.

L’imputato ha quindi proposto ricorso per Cassazione deducendo vizio di motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva, in quanto nei precedenti gradi del giudizio non sarebbero state correttamente valutate le risultanze istruttorie ed eccependo che il reato di bancarotta documentale non poteva essere contestato se non all’amministratore legale.

La Cassazione ha dichiarato tale motivo inammissibile perché formulato in modo da proporre una diversa lettura delle risultanze istruttorie, fornendo una ricostruzione alternativa della vicenda in esame: secondo gli Ermellini il controllo di legittimità operato dalla Corte di Cassazione non deve infatti stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, bensì deve limitarsi a verificare che tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e sia plausibile.

I Giudici hanno inoltre evidenziato che la motivazione della sentenza impugnata era basata su prove storiche e logiche, in quanto dall’istruttoria era emerso che l’imputato aveva operato nella società fallita non solo quale esperto conoscitore di funghi, bensì anche come dominus della società, poiché aveva partecipato alla fase di cessione delle quote dal precedente titolare a quello nuovo, aveva effettuato i pagamenti delle merci mediante consegna di assegni, aveva trattato l’affitto del capannone adibito a magazzino della società ed aveva partecipato alle discussioni in ordine al protesto degli assegni.

Secondo la Suprema Corte, poiché in caso di bancarotta fraudolenta i responsabili devono essere individuati sulla base delle funzioni concretamente esercitate, nel caso in esame i giudici di merito avevano correttamente attribuito all’imputato la qualifica di amministratore di fatto della società.

La Cassazione ha inoltre specificato che la nozione di amministratore di fatto di cui all’art. 2639 c.c. – prevista in riferimento ai reati societari ma ritenuta utilizzabile anche nel contesto in esame – postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; tuttavia, secondo i giudici di legittimità, significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono lo svolgimento di un’apprezzabile attività di gestione, svolta in modo non episodico od occasionale. Inoltre l’accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione o cogestione societaria costituirebbe oggetto di apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità se sostenuto da motivazione congrua e logica (cfr. Cass. sent. n. 22413/2003).

Pertanto, secondo la Corte, il soggetto che riveste la qualifica di amministratore di fatto di una società ex art. 2639 c.c. è da ritenere gravato da tutti i doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto e, ove ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi, è penalmente responsabile alla stregua di quest’ultimo.

Di conseguenza, secondo gli Ermellini, anche per l’amministratore di fatto vale sia il principio di responsabilità per la tenuta della contabilità in modo da non consentire la ricostruzione degli affari, sia il principio che attiene alla responsabilità per il delitto di bancarotta per distrazione, sempre che sia stata accertata la previa disponibilità, da parte dell’imputato, dei beni non rinvenuti in seno all’impresa all’atto della dichiarazione di fallimento. Tale constatazione costituirebbe infatti, qualora non altrimenti giustificata, valida presunzione della loro dolosa distrazione, probatoriamente rilevante al fine di affermare la responsabilità dell’imputato.

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