La responsabilità della banca per gli investimenti su obbligazioni Lehman

La recentissima sentenza n. 15396 del 18 giugno 2018 si è espressa su un tema molto interessante concernente le obbligazioni Lehman Brothers, sancendo definitivamente l’illegittimità del comportamento della banca che, violando gli obblighi informativi posti a suo carico, induce il cliente all’acquisto di titoli concernenti una società emittente in grave situazione economico-finanziaria.

Nello specifico, nel corso del 2001 un cliente aveva stipulato un contratto di deposito titoli con l’Istituto di credito Intesa Sanpaolo Private Banking S.p.a..

Nel mese di febbraio 2008, in occasione della scadenza di un’operazione di pronti contro termine, il medesimo si era recato presso la Banca con l’intento di reinvestire la somma, ormai prossima alla liquidazione e, in tale occasione, gli era stato prospettato l’acquisto di obbligazioni Lehman Brothers.

In ragione del rapporto pluriennale e della fiducia riposta nell’operato dell’Istituto, il cliente aveva quindi sottoscritto un ordine avente ad oggetto le citate obbligazioni emesse da Lehman Brothers Holding Inc., prevedendo l’acquisto di nominali euro 100.000,00, pari ad un investimento complessivo di euro 99.591,08.

Nell’ordine d’acquisto la Banca aveva dichiarato che tali obbligazioni erano poco rischiose e si era obbligata ad avvisare tempestivamente il cliente ove si fosse verificata una variazione significativa del livello di rischio. Tuttavia, a seguito del noto defaultdel gruppo Lehman, il cliente aveva perso gran parte del capitale investito.

Alla luce di tali eventi, l’investitore aveva quindi adito la competente Autorità giudiziaria e instaurato un contenzioso con la banca, risultando vittorioso sia in primo che in secondo grado.

A fronte di tale esito, Intesa San Paolo aveva depositato ricorso in Cassazione che analogamente ha rigettato le doglianze avanzate per il seguente ordine di motivi.

Innanzitutto, nel testo della sentenza è stato, in via preliminare, chiarito come le operazioni di pronto contro termine oggetto di precedente contrattazione da parte del cliente fossero connotate da un rischio assai contenuto rispetto ai titoli Lehman.

Degli stessi la banca aveva oltretutto omesso di illustrare gli effettivi rischi e di riferire che concernessero obbligazioni provenienti da una banca d’affari americana costretta ad operare in un mercato in crescente difficoltà a causa della crisi dei mutui subprime, addirittura prospettando la sostanziale equivalenza di tale investimento ad un’operazione di pronto contro termine.

Orbene, sul punto la Corte di Cassazione ha decretato l’esistenza dello specifico obbligo dell’intermediario finanziario di fornire al cliente una dettagliata informazione circa i titoli mobiliari, con particolare riferimento alla natura degli stessi e ai caratteri propri dell’emittente.

Nel caso specifico, è incontestato come questa informazione non fosse stata fornita al cliente, risultando integrato l’inadempimento della Banca nell’assolvere al proprio dovere di informazione e astensione da qualsivoglia servizio di investimento rischioso.

Nel valutare correttamente che le informazioni fornite dall’intermediario fossero state insufficienti a far comprendere all’investitore la differente natura dei titoli oggetto dell’acquisto, la Suprema Corte ha affrontato inoltre la questione inerente al profilo di rischio dell’investitore, confermando la bassa propensione al rischio del medesimo ed escludendo, pure, che la pregressa operatività del cliente fosse indicativa dell’assunzione di un più elevato profilo, tale da rendere insussistente il nesso di causalità tra la violazione degli obblighi informativi e il danno.

Nel caso in esame, è stato quindi pienamente riconosciuta e accertata la sussistenza del predetto nesso di causalità tra l’inadempimento dei doveri di informazione e la cospicua perdita subita dal cliente posto che la Banca si era limitata a riconfermare le informazioni originariamente fornite, mancando qualsivoglia diligente approfondimento nonostante le ripetute sollecitazioni ricevute dal cliente, in palese violazione dell’art. 21 T.U.F., comma primo, lett. b), il quale stabilisce che i soggetti abilitati devono “acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati”.

A tal proposito, si rammenta il noto principio espresso dalle Sezioni Unite secondo cui “anche l’obbligo dell’intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi, permane attuale durante l’intera fase esecutiva del rapporto e si rinnova ogni qual volta la natura o l’entità della singola operazione lo richieda, per l’ovvia considerazione che la situazione del cliente non è statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo” (Cass. Civ. SS.UU., n. 26725/2007).

Tale orientamento giurisprudenziale è stato peraltro arricchito da ulteriori importanti interventi, i quali, muovendo dal dato normativo, hanno affermato che l’obbligo d’informazione di tipo continuativo è chiaramente fondato non solo sulle norme primarie e regolamentari di settore, ma anche sugli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono il rispetto delle regole generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto.

Si tratta di una pronuncia che acclara l’immanenza nel nostro ordinamento di principi – a tutela dell’investitore – poi positivamente introdotti dalla Mifid2, all’inizio di quest’anno.

Ebbene, in considerazione della circostanza per cui la Banca non aveva esplicitato con chiarezza all’investitore la situazione del titolo e del mercato, non mancando di fornire generiche rassicurazioni al cliente e nemmeno mettendo il medesimo nella condizione di valutare correttamente la criticità del caso, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso di Intesa San Paolo, confermando la condanna della banca a risarcire il cliente della somma di euro 97.439,97, oltre rivalutazione monetaria, interessi e spese di lite.

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