Da tempo la dottrina e giurisprudenza si interrogano sull’astratta applicabilità dell’istituto della messa alla prova nel procedimento di accertamento della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.
Il tenore letterale del quadro normativo di riferimento non aiuta a fare questione sulla vexata quaestio.
La disciplina dell’istituto della messa alla prova, rinvenibile negli artt. 168 bis ss. c.p. e 464 bis ss. c.p.p., individua il soggetto legittimato a formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova nell’imputato, senza espressa estensione all’ente incolpato di un illecito amministrativo dipendente da reato.
A questo si aggiunga che gli artt. 62 ss. del D.Lgs. n. 231/2001, nel contemplare previsioni specifiche per i procedimenti speciali nei confronti degli enti, non menzionano, tra questi, anche la messa alla prova.
D’altro canto, l’art. 34 del D.Lgs. n. 231/2001 prevede l’applicabilità delle norme del codice di procedura penale, se compatibili, al procedimento d’accertamento della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, mentre il successivo art. 35 stabilisce l’applicabilità all’ente delle “disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili”.
Il Tribunale di Bari, con l’Ordinanza emanata nell’udienza dello scorso 16 giugno, ha stabilito, ribaltando una pronuncia del Tribunale di Milano resa nel non lontanissimo 2017, che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere presentata pure dall’ente incolpato di un illecito amministrativo dipendente da reato.
Il Tribunale meneghino aveva, infatti, ritenuto che l’applicazione dell’istituto della messa alla prova all’ente determinasse una violazione dei principi di riserva di legge e di tassatività della legge penale, dal momento che, essendo I’istituto della messa alla prova riconducibile al novero delle sanzioni penali, in ragione della sua natura (pure) sostanziale, risulterebbe preclusa l’applicazione analogica della relativa disciplina, la quale violerebbe anche la riserva di legge, che nella materia delle pene è assoluta.
I giudici del capoluogo pugliese hanno, di contro, statuito la possibilità di applicazione della messa alla prova nei procedimenti per responsabilità para-penale a carico dell’Ente, ritenendo che “l’effetto favorevole conseguente all’applicazione dell’istituto si apprezza nella possibilità, rimessa alla libera scelta dell’imputato, di ottenere l’estinzione del reato senza espiazione di una pena detentiva o pecuniaria in caso di condanna, la quale viene sostituita con lo spontaneo assolvimento di una serie di obblighi”.
In altri termini, il Tribunale di Bari non ha ritenuto che il difetto, pur sussistente, di coordinamento tra la disciplina sostanziale della messa alla prova e quella di cui al D.Lgs. n. 231/2001 sia l’espressione della scelta del legislatore d’escludere gli enti dall’ambito soggettivo d’applicazione dell’istituto.
D’altra parte, si legge nell’Ordinanza dello scorso 16 giugno che la ratio del sistema introdotto dal d.Lgs. 231/01 sarebbe “la prevenzione speciale in chiave rieducativa: si vuole indurre l’ente ad adottare comportamenti riparatori dell’offesa che consentano il superamento del conflitto sociale instaurato con l’illecito, nonché idonei, concreti ed efficaci modelli organizzativi che incidendo strutturalmente sulla cultura d’impresa, possano consentirgli di continuare a operare sul mercato nel rispetto della legalità o meglio di rientrarvi con una nuova prospettiva di legalità”.
La questione è ora all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, il prossimo 27 ottobre, saranno chiamate a fare chiarezza sull’applicabilità agli enti per gli illeciti 231 dell’istituto della messa alla prova.