Con l’art. 39, comma 12, del D.L. n. 98/2011, il legislatore aveva introdotto l’istituto della definizione delle liti fiscali allo scopo di agevolare la risoluzione delle cd. “liti minori” che vedessero coinvolta l’Agenzia delle Entrate, con l’intento di alleggerire il carico dei contenziosi di natura tributaria gravanti sull’affaticato sistema-giustizia italiano.
Rispetto all’istituto della “vecchia” chiusura delle liti fiscali pendenti, potevano essere interessate esclusivamente quelle controversie nelle quali fosse parte la sola Agenzia delle Entrate, di valore non superiore a 20.000 euro, con obbligo di versamento in unica soluzione.
Nella prassi applicativa sono tuttavia sorti problemi in merito alla debenza dei maggiori contributi previdenziali ricalcolati sulla base di quegli avvisi di accertamento che, successivamente alla loro impugnazione da parte dei contribuenti, fossero risultati soggetti alla definizione di cui si ragiona.
A dispetto del fatto che tale questione non potesse certamente ritenersi di secondaria importanza, infatti, non era stata prevista un’apposita disciplina normativa sul punto.
Tale lacuna, come era logico attendersi, aveva conseguentemente alimentato un margine di incertezza alla quale gli addetti ai lavori non avevano saputo porre rimedio in maniera chiara ed univoca.
La prassi elaborata nel prosieguo dall’Agenzia delle Entrate aveva dunque tentato di ovviare a tale problematica (senza peraltro riuscirvi appieno), fornendo una serie di indicazioni in materia che si orientavano tutte nel senso che la sopravvenienza della definizione delle liti, attuata in conformità al dettato della disposizione volta a disciplinare detto strumento deflativo, non dovesse riguardare gli importi contributivi INPS.
Questi, a detta dell’AE, non potevano pertanto esser sgravati dal ruolo e dovevano essere pagati dal contribuente – a fronte della richiesta avanzata dall’INPS – per l’intero ammontare originariamente accertato dall’Agenzia delle Entrate.
Interessante l’orientamento della giurisprudenza in proposito.
Il Tribunale di Ancona in funzione di Giudice del Lavoro con la sentenza n. 559 del 30.10.2013 si è pronunciato sul punto in una causa che vedeva contrapposti un’azienda e l’INPS.
Nel proprio incedere argomentativo tale Autorità Giudicante statuisce che, alla luce delle disposizioni che regolano l’istituto della definizione, l’accordo tra contribuente ed Amministrazione Finanziaria di cui si ragiona riguarda solo l’ammontare dell’imposta e non comporterebbe al contrario il riconoscimento da parte del soggetto contribuente di un maggiore imponibile (come invece voluto dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale).
Ciò significherebbe, a detta del Tribunale, che solo l’ammontare dell’imposta viene influenzato dalla definizione de qua (e non anche quanto dovuto a titolo di contributi.)
L’avvenuta definizione della lite fiscale pendente (che non verte direttamente sulla debenza dei contributi) non comporta automaticamente un accertamento di maggiore imponibile.
In conseguenza di ciò, l’INPS è tenuto a suffragare adeguatamente dal punto di vista probatorio le pretese avanzate nei riguardi del contribuente, ciò a pena d’incorrere (in caso contrario) nell’accoglimento delle pretese avversarie, come effettivamente avvenuto nel caso in esame.
Il Tribunale di Lucca in veste di Giudice del Lavoro, invece, si pronuncia in materia con la sentenza n. 608 del 05.12.2013.
La controversia oggetto di giudizio “vantava” ovviamente un’origine tributaria (impugnazione innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale da parte della contribuente dell’avviso di accertamento emanato nei suoi confronti dall’Agenzia delle Entrate, con successiva sopravvenienza della definizione della lite).
I contributi previdenziali che erano stati tuttavia richiesti alla parte ricorrente sarebbero (ed il condizionale, come si vedrà, è d’uopo) scaturiti dal “maggiore imponibile derivante da avviso di accertamento sui redditi conseguiti”.
Il Tribunale di Lucca afferma dal canto suo che, alla luce della sopravvenienza della definizione, risulta preclusa all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale la possibilità di richiedere al contribuente i contributi previdenziali contestati con l’avviso di accertamento.
Il pagamento della somma forfetaria (necessario per addivenire alla cessazione della materia del contendere) per il Tribunale lucchese non costituisce affatto un attestazione nel merito della legittimità delle pretese tributarie avanzate da parte dell’Amministrazione Finanziaria nei riguardi del contribuente.
L’avviso di accertamento de quo, inoltre, non diviene in alcuna maniera definitivo essendo stato prima impugnato innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale e poi definito: ciò significa che il reddito ricalcolato al suo interno non si era sostituito, cristallizzandosi, a quello originariamente riportato nella dichiarazione IRPEF della parte ricorrente (che rimaneva dunque valido parametro di riferimento).
Stante il legame sussistente tra tale elemento e l’importo dei contributi da versarsi da parte del soggetto interessato, a detta del Tribunale l’INPS non poteva richiedere un importo di questi ultimi superiore in quanto derivante da un reddito che in realtà non era stato (oltre che dichiarato neppure) accertato.