Per un giovane professionista all’inizio della propria attività, che si approccia al regime di tassazione ordinaria una volta superati i limiti reddituali previsti per l’adesione ai regimi dei minimi o al nuovo regime forfetario, si pone l’annosa questione se i compensi percepiti in relazione alla propria attività professionale siano assoggettabili o meno all’Irap.
E se la risposta sembra semplice in relazione a situazioni in cui il giovane professionista si trovi ad operare nell’ambito di uno studio professionale riconducibile alla titolarità di un soggetto terzo, versando magari un canone di locazione per l’utilizzo della struttura, la situazione si complica quando il medesimo svolga ulteriori attività o cominci ad operare “in proprio”, senza l’ausilio di personale dipendente e con una limitata disponibilità di risorse.
Un aiuto nel comprendere i presupposti di applicabilità dell’Irap è offerto dalla giurisprudenza che si è più volte espressa in relazione alla rilevanza o meno ai fini Irap dello svolgimento di attività professionale, allargando o restringendo il campo di applicazione dell’imposta sulla base di criteri non sempre chiari.
L’argomento è spesso oggetto di trattazione anche da parte della Corte di Cassazione, che è recentemente tornata sul tema con l’ordinanza n. 4246 del 03 marzo 2016, nella quale ha ripercorso alcune importanti pronunce e chiarito alcuni fondamentali concetti.
In particolare, la Suprema Corte ha ribadito che l’Irap coinvolge una capacità produttiva “impersonale ed aggiuntiva” rispetto a quella propria del professionista (determinata dalla sua cultura e preparazione professionale) e colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto, derivante da una struttura organizzativa “esterna”, cioè da “un complesso di fattori che, per numero, importanza e valore economico, siano suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista (lavoro dei collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da forme di finanziamento diretto ed indiretto etc.)“, cosicché è “il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista…ad essere interessato dall’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo lavoro personale” (Cass. sent. n. 15754/2008).
Il combinato disposto del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, comma 1, primo periodo, e art. 3, comma 1, lett. c), prevede che l’esercizio delle attività di lavoro autonomo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 49, comma 1, sia escluso dall’applicazione dell’imposta regionale sulle attività produttive solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata; secondo la Cassazione, il requisito della autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità solo se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (Cass. SS.UU. sent. n. 12109/2009).
Secondo l’orientamento citato dall’ordinanza:
- non sono soggetti ad Irap i proventi che un lavoratore autonomo percepisca come compenso per le attività svolte all’interno di “una struttura da altri organizzata” (Cass. 9692/2012);
- la mera disponibilità di uno studio, dotato del “minimo indispensabile” per l’esercizio dell’attività professionale, non integra, di per sé, in assenza di personale dipendente, il requisito dell’autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo (Cass. sent. n. 10240/2010);
- il libero professionista, che opera come amministratore di società o presidente del consiglio di amministrazione oppure ancora come consulente, non è soggetto all’IRAP per la parte di ricavo netto che risulta da quelle attività, soltanto se adempie alla funzione senza ricorrere ad un’autonoma struttura organizzativa (Cass. n. 4959/2009, n. 10594/2007 e n. 3676/2007).
Nella fattispecie trattata nella pronuncia, la Cassazione ha rilevato che, poiché i giudici dell’appello avevano accertato che l’attività svolta dal professionista, dottore commercialista, quale amministratore, revisore e sindaco di società, veniva svolta “senza avvalersi di particolari mezzi e collaboratore”, quindi in assenza di un’autonoma organizzazione, mentre l’Agenzia delle Entrate nel ricorso per cassazione si era limitata a dedurre che l’attività in contestazione era svolta dal professionista presso uno studio professionale, tale assunto non poteva essere sufficiente ad integrare il requisito dell’autonoma organizzazione, necessaria ai fini dell’assoggettamento ad Irap dei compensi derivati dall’attività di amministratore, revisore e sindaco di società.
Ancora una volta la Cassazione ha ribadito quindi che ciò che rileva ai fini dell’applicabilità dell’imposta non è la natura dell’attività svolta, bensì il tipo di organizzazione che è stata utilizzata per lo svolgimento.