Il trasferimento fittizio della sede sociale non esclude la giurisdizione del giudice italiano

Il trasferimento in uno Stato extracomunitario della sede societaria in un momento anteriore al deposito dell’istanza di fallimento non esclude la giurisdizione del Giudice italiano qualora abbia carattere fittizio.

Con l’ordinanza n. 20144 del 03 ottobre 2011, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno rigettato le istanze, volte a fare dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice italiano, promosse relativamente ai procedimenti per la dichiarazione di fallimento instaurati presso il Tribunale di Roma da una società che, in data anteriore al deposito dei ricorsi per istanza di fallimento, aveva trasferito la propria sede legale negli USA, precisamente nello Stato del Delaware, nonché spostato la propria sede amministrativa in Gran Bretagna, a Southampton, luogo ove si sarebbe trovato il “centro di interessi” della società e ove la stessa avrebbe operato in via esclusiva.

I ricorrenti avevano argomentato richiamando due fonti normative, una nazionale ed una comunitaria: la prima è stata indicata con riferimento alla sede legale, rispetto alla quale l’art. 9, co. V, del R.D. n. 267/1942 esclude implicitamente il diritto del giudice nazionale, qualora il trasferimento sia avvenuto prima del deposito di qualsiasi istanza per la dichiarazione di fallimento; la seconda è stata, invece, individuata in relazione al “centro degli interessi principali del debitore”, al quale l’art. 3, par. 1, del Regolamento (CE) n. 1346/2000, relativo alle procedure di insolvenza, attribuisce decisiva rilevanza in sede di riconoscimento della competenza all’apertura della procedura concorsuale.

La Cassazione ha tuttavia sottolineato che risultavano delle incongruenze nella prospettazione del trasferimento all’estero della sede societaria e che tali incongruenze costituivano indice della natura fittizia di tali trasferimenti.

Secondo la Suprema Corte la scissione tra sede legale (negli USA) e sede reale (in Gran Bretagna) doveva ritenersi equivoca ed ingiustificata, trasferimento che inoltre era stato deliberato ed attuato in epoca tanto prossima alla presentazione delle istanze di fallimento da fare ritenere lo stesso non dettato da esigenze imprenditoriali reali ma esclusivamente un espediente attuato in vista dello stato di insolvenza della società e della probabile apertura della procedura concorsuale.

Per questi motivi le Sezioni Unite, ritenuto il carattere fittizio dello spostamento della sede societaria, hanno statuito che nonostante lo stesso fosse stato attuato in data anteriore alla dichiarazione di fallimento, sussistesse comunque la giurisdizione del Giudice italiano, essendo essa inderogabile (salve le convenzioni internazionali o le norme comunitarie) secondo il disposto degli artt. 9 e 10 L. Fall. e dell’art. 25 L. 218/1995, i quali escludono la predetta giurisdizione soltanto nei casi di effettivo e tempestivo trasferimento all’estero.

La Cassazione ha ribadito inoltre che, ai sensi del già richiamato art. 3, par. 1, del Regolamento (CE) n. 1346/2000, competenti ad aprire la procedura di insolvenza sono i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, presumendosi, per le società e le persone giuridiche, che il centro degli interessi coincida, fino a prova contraria, con il luogo in cui si trova la sede statutaria e che tuttavia, ove anteriormente alla presentazione dell’istanza di fallimento, come nella specie, la società abbia trasferito all’estero la propria sede legale e tale trasferimento appaia fittizio, non avendo ad esso fatto seguito l’esercizio di attività economica nella nuova sede né lo spostamento presso di essa del centro dell’attività direttiva, amministrativa ed organizzativa dell’impresa, permane la giurisdizione del giudice italiano a dichiarare il fallimento.

Nel provvedimento in esame gli Ermellini hanno inoltre affrontato alcune questioni procedurali.

Nelle more del giudizio il Tribunale di Roma aveva infatti dichiarato il fallimento della società de quo ed il nominato curatore era quindi intervenuto nei procedimenti per la dichiarazione del difetto di giurisdizione, chiedendo il rigetto dei ricorsi.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto ammissibile l’intervento spiegato dal curatore disattendendo il proprio consolidato orientamento secondo cui il soggetto che non sia parte formale nella causa di merito non può proporre ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione né intervenire in sede di regolamento proposto da altri, in quanto tale procedimento è meramente strumentale ed incidentale e non vi sono consentite questioni non attinenti alla giurisdizione (incluse quelle sulla legittimazione di un terzo a partecipare al relativo giudizio).

Nell’ordinanza gli Ermellini hanno evidenziano infatti che, poiché il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in relazione al quale sono stati proposti i ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione, si è concluso in primo grado (in pendenza dei ricorsi) con la dichiarazione di fallimento della società e la conseguente nomina del curatore, il medesimo è diventato medio tempore parte anche nella causa di merito ed è quindi ammissibile il suo intervento anche nel procedimento incidentale.

Parimenti la Cassazione ha rigettato la richiesta di dichiarare l’interruzione del processo in considerazione dell’intervenuta sentenza del Tribunale di Roma, ribadendo il consolidato principio secondo cui la proposizione di istanza di giurisdizione non produce la sospensione del processo pendente (tranne in casi particolari), con la conseguenza che il processo di merito può proseguire ed essere definito in primo grado prima che sia decisa la questione sulla giurisdizione.

La sentenza eventualmente pronunciata nel giudizio di merito deve quindi considerarsi condizionata, nel senso che ove la sentenza della Cassazione sia contraria a quanto statuito dal Giudice di merito, la sentenza di quest’ultimo risulterà priva di effetto, sia in ordine alla questione della giurisdizione sia in ordine alle questioni successive.

Articoli Recenti

L’obbligo degli Uffici di dare esecuzione alle sentenze tributarie

A seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 156/2015 all’articolo 67-bis del D.Lgs. 546/1992, tale previsione stabilisce che le sentenze delle commissioni tributarie (oggi, per effetto della Legge n. 130/2022, corti di giustizia tributaria di primo e di secondo grado) sono esecutive. Già anteriormente al D.Lgs. 156/2015, peraltro, la giurisprudenza di legittimità aveva sancito che l’efficacia immediata delle sentenze delle commissioni tributarie concernenti atti impositivi fosse già riconosciuta dal sistema. Essa doveva desumersi, oltre che dal generale rinvio effettuato dall’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 546/1992 alle norme del codice di procedura civile, e quindi anche all’articolo 282 c.p.c., anche sulla base dell’articolo 68 del menzionato D.Lgs. 546/92.

Leggi articolo
error: Il sito è protetto da copyright!