L’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000 punisce chiunque non paghi l’iva dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo e se l’importo è superiore a 50.000 euro, con la reclusione da sei mesi a due anni.
Tale norma è da tempo oggetto di riesame di parte della dottrina e della giurisprudenza e, dato anche l’attuale periodo di crisi attraversato dalle imprese, il dibattito è sempre più acceso.
Da un lato si registrano pronunce che tendono a limitare la responsabilità penale del contribuente che incorre in tale fattispecie delittuosa, dall’altro vi sono tentativi di allargarne le maglie.
Interessante è la sentenza n. 12248 del 14 marzo 2014 con cui la Corte di Cassazione ha fornito una nuova interpretazione dell’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000 favorevole all’imputato, respingendo il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pordenone avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta di sequestro preventivo, formulata in una vicenda in cui erano indagati gli amministratori di una società, dichiarata insolvente, per avere omesso il versamento dell’iva dovuta in base alla dichiarazione annuale.
La Suprema Corte ha evidenziato che, stante la natura di reato proprio omissivo ed istantaneo della fattispecie di cui all’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000, nel caso in esame non sarebbe stato possibile attribuire agli indagati la responsabilità penale, posto che alla data di consumazione del reato la società, già amministrata dagli indagati, era affidata alla gestione del commissario giudiziale nominato dal Tribunale in seguito alla dichiarazione di insolvenza.
Secondo i Giudici di legittimità ciò che rileva, ai fini della perseguibilità penale della condotta, è che, nel momento in cui il reato giunge a consumazione, il soggetto tenutovi non effettui “dolosamente” il versamento dell’iva dichiarata, dovendo il giudice accertare l’esistenza del dolo generico omissivo nel momento in cui il reato de quo si perfeziona, ossia alla data di scadenza ultima entro cui effettuare il versamento.
Tale orientamento è stato ribadito nella sentenza n. 15660 dell’08.04.2014 della sezione terza della Cassazione, con la quale è stata confermata la condanna del legale rappresentante di una società che, subentrando al precedente amministratore, non aveva versato l’iva eccependo di avere rinvenuto la società in condizioni economiche tali da rendere impossibile il versamento.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto dall’imputato, specificando che colui che subentra nella carica di amministratore di una società si espone a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze; secondo i Giudici : “…l’odierna ricorrente avrebbe dovuto e potuto, in primo luogo, effettuare, prima di assumere la carica di amministratore, una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle dichiarazioni dei redditi e, in secondo luogo, raccogliere dal momento del subentro (aprile 2006) in poi le liquidità occorrenti per il pagamento a fine dicembre dell’IVA. La scelta dell’odierna ricorrente di destinare i proventi del 2006 al pagamento di debiti diversi da quelli verso l’erario si risolve quindi automaticamente nell’accettazione del rischio di non poter versare l’IVA nel termine penalmente rilevante”.
Sempre in materia di omesso versamento dell’iva per carenza di liquidità si è nuovamente espressa la sezione terza della Cassazione con la sentenza n. 14953 del 01.04.2014, in una vicenda che vedeva indagato un imprenditore che aveva omesso il versamento a causa di assenza di liquidità dovuta a debiti pregressi legati all’esercizio dell’attività.
In questo caso la Suprema Corte ha invece statuito, relativamente alla sussistenza dell’elemento doloso in relazione alla condotta, che la punibilità per il reato in questione è esclusa solo laddove l’assenza di liquidità derivi da eventi eccezionali e di rilevante dimensione, in quanto nell’esercizio di una attività imprenditoriale l’assenza di liquidità non è di per sé una circostanza eccezionale ed imprevedibile.
La Suprema Corte, tuttavia, ha lasciato all’imputato la possibilità di provare come “non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili”.
La fattispecie di cui all’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000 è stata recentemente oggetto di esame anche della Corte Costituzionale, con la sentenza n. 80 dell’08.04.2014, con esiti favorevoli al contribuente.
Il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 17.09.2013, ha promosso giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000 nella parte in cui prevede una soglia di punibilità inferiore a quelle stabilite, per i delitti di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione, dagli artt. 4 e 5 del medesimo decreto legislativo prima delle modifiche introdotte dal D.L. n. 138/2011.
Nell’ordinanza di rimessione il Tribunale ha rilevato come, prima delle predette modifiche, le norme sopra citate prevedevano che la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione fossero penalmente rilevanti solo in caso di superamento di una soglia, riferita all’imposta evasa, rispettivamente di euro 103.291,38 e di euro 77.468,53: tali soglie sono state abbassate dal predetto D.L. rispettivamente ad euro 50.000 ed a euro 30.000.
Da ciò sarebbe conseguita una palese violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto le condotte più insidiose, in quanto atte ad ostacolare l’accertamento tributario, sarebbero rimaste non punibili, contrariamente a quella, “più trasparente”, del soggetto che, rappresentando regolarmente la propria posizione fiscale, abbia omesso il versamento dell’imposta da lui stesso dichiarata come dovuta.
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione di legittimità: secondo i Giudici, la norma incriminatrice di cui all’art. 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000 mira a proteggere l’interesse del fisco alla riscossione dell’imposta così come “autoliquidata” dallo stesso contribuente; presupposto per la sua applicazione è, infatti, che il soggetto di imposta abbia presentato la dichiarazione annuale ai fini dell’iva, dalla quale risulti un saldo debitorio superiore a 50.000 euro, senza che sia seguito il pagamento, entro il termine previsto, della somma ivi indicata come dovuta.
La lesione del principio di uguaglianza emerge quindi dal fatto che omessa dichiarazione e dichiarazione infedele rappresentano delitti più gravi rispetto all’omesso versamento, diversa gravità cui dovrebbe conseguire anche un trattamento sanzionatorio più grave.
E’ quindi evidente “il difetto di coordinamento tra la soglia di punibilità inerente al delitto in esame e quelle relative ai delitti di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione; difetto di coordinamento foriero di sperequazioni sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza, rendono censurabile l’esercizio della discrezionalità pure spettante al legislatore in materia di configurazione delle fattispecie astratte di reato (ex plurimis, sentenze n. 68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010)”.
La Corte Costituzionale ha quindi concluso ritenendo necessario, al fine di rimuovere la violazione del principio di uguaglianza, allineare la soglia di punibilità dell’omesso versamento dell’iva, quanto ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, alla soglia di punibilità della dichiarazione infedele, ossia euro 103.291,38.
In conclusione, dall’esame delle più recenti sentenze in materia di omesso versamento dell’iva, nonostante qualche apertura in favore del contribuente, pare obiettivamente difficile individuare una volontà di adeguare il dettato normativo alle esigenze di una classe di imprenditori che, a fronte di concreti problemi di liquidità dovuti al periodo di crisi globale, faticano a fare fronte al versamento delle imposte.