Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una norma specifica che impedisca il frazionamento delle domande giudiziali, nonché una disposizione che ostacoli la possibilità di proporre una causa volta al recupero di un credito, solo perché già pendente un giudizio instaurato per il recupero di un credito diverso, ma derivante dallo stesso contratto tre le parti.
Ciò posto, la parcellazione separata di crediti diversi e distinti derivanti da un medesimo rapporto è prevista esclusivamente in presenza di un interesse oggettivo del creditore a proporre molteplici azioni, in difetto il frazionamento è ingiustificato; questo principio è stato confermato dall’ordinanza n. 16993 depositata in data 27 giugno 2018 dalla Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione.
Nel caso di specie, il giudizio traeva origine da un’azione proposta da un perito nei confronti di un Istituto Assicurativo al fine di ottenere il pagamento del compenso per l’incarico svolto nell’interesse della Compagnia assicurativa. Il Tribunale adito, in sede di appello, riformando la sentenza del giudice di prime cure, rigettava la domanda del perito.
Nello specifico il Tribunale aveva ravvisato un abusivo frazionamento del credito, atteso che gli incarichi del professionista erano tutti riconducibili a un unico contratto d’opera tra le parti, nell’ambito di un ampio accordo di collaborazione professionale.
Il consulente dunque decideva di procedere avanti la Suprema Corte rilevando, tra i vari motivi, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 1175 e 1375 C.C. con riferimento ad una erronea interpretazione dei principi elaborati dalle Sezioni Unite, con la sentenza n.23726/2007, in relazione al frazionamento abusivo del credito.
Secondo il consulente l’ipotesi di frazionamento abusivo del credito si realizza solo in presenza di un unico rapporto obbligatorio e di un’unica causa petendi, circostanze non ravvisabili nel caso di specie, dal momento che la compagnia aveva sempre conferito singoli incarichi al professionista.
La Suprema Corte, con la richiamata ordinanza n.16993/2018, ha rigettato il ricorso proposto dal consulente, confermando la decisione del Tribunale.
Nello specifico, il Giudice di legittimità ha rilevato che, come tra l’altro affermato dal Tribunale in sede di appello, il perito aveva svolto per molto tempo e con le medesime modalità un’attività continuativa, che prevedeva che la remunerazione fosse collegata unicamente al numero dei sinistri periziati, con accettazione delle parcelle mediante il sistema informatico della compagnia, a prescindere dal contenuto concreto della prestazione.
Alla luce di ciò i compensi del ricorrente risultavano ascrivibili al medesimo ambito e fondati su un medesimo rapporto di durata.
Non solo. La Suprema Corte, riprendendo un precedente principio giurisprudenziale sancito dalle Sezioni Unite in ordine alla possibilità di frazionamento giudiziale del credito, ha ritenuto che “le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo fatto costitutivo – sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale -, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata” (Cass. Civ. n. 4090/2017).
Nella fattispecie in esame, il perito non ha dimostrato l’esistenza di un interesse oggettivamente meritevole di tutela frazionata. Infatti il ricorrente si era limitato ad eccepire il rischio prescrizione, non allegando alcun elemento concreto di prova, né ha dedotto elementi di fatto validi a diversificare le prestazioni eseguite e idonee a giustificare una trattazione frazionata delle proprie pretese creditorie.
In conseguenza di ciò, la Corte ha rigettato il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di lite.