Fatture false: le azioni del curatore in caso di fallimento della società destinataria delle prestazioni fittizie

Come si legge nella relazione tenuta dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione in occasione della Cerimonia di Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2021, il sistema delle false fatturazioni rappresenta, sempre più frequentemente, il meccanismo attraverso il quale la criminalità organizzata si “avvicina” alle imprese in difficoltà.

Da qui, un dato statistico secondo cui le procedure fallimentari si trovano spesso a dover analizzare nei bilanci delle società interessate dalla procedura partite evidentemente riconducibili a prestazioni fittizie ricevute.

Tale evenienza pone la questione circa l’astratta esperibilità di azioni, ad opera del curatore, per recuperare le disponibilità finanziarie illecitamente drenate, quale conseguente parziale effetto del sistema di frode fiscale in discussione.

Sul punto, occorre richiamare le disposizioni in tema di azione di responsabilità promossa dal curatore, disciplinata dall’art. 146 L.F., nella prospettiva dell’accertamento delle responsabilità di cui agli artt. 2392 e 2486 c.c.

In questa prospettiva, nella dinamica processuale ordinaria – che vede spesso la procedura fallimentare susseguire un’imputazione penale di norma ancorata a reati tributari – viene spesso in rilievo il rapporto tra il sequestro dei beni nell’ambito del procedimento penale funzionale ad accertare le condotte di falsa fatturazione e i patrimoni aggredibili mediante la suddetta azione di responsabilità a carico dell’amministratore (di fatto o di diritto) della società.

In proposito, la Suprema Corte, con la sentenza n. 26874/2021, ha chiarito la primazia del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per valore del profitto del reato tributario rispetto ai diritti di credito vantati sui medesimi beni dai creditori intervenuti nella procedura concorsuale, in tal modo stabilendo l’impossibilità per il fallimento di accedere ai beni cui sia stata applicata una misura cautelare reale, astrattamente tramutabile in confisca.

Tale inequivocabile principio limita, invero, in caso di condanna, anche il perimetro di operatività di un’eventuale azione di natura revocatoria fallimentare, ai sensi degli artt. 66 e ss. L.F., coordinati con le prescrizioni del codice civile, di cui agli artt. 2901 e ss.

Mutatis mutandis, le medesime limitazioni sussistono anche nel caso di una favorevole evoluzione del processo penale, laddove non è peregrino osservare come una pronuncia di assoluzione, con una formula di effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato, se non esclude totalmente – pur nel necessario rispetto dei limiti indicati agli artt. 652 e ss. c.p.p. – ogni residua possibilità di autonoma valutazione della fattispecie in sede civile, di sicuro comprime fortemente l’ambito di apprezzamento del Giudice chiamato a decidere sull’azione promossa dal curatore.

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L’obbligo degli Uffici di dare esecuzione alle sentenze tributarie

A seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 156/2015 all’articolo 67-bis del D.Lgs. 546/1992, tale previsione stabilisce che le sentenze delle commissioni tributarie (oggi, per effetto della Legge n. 130/2022, corti di giustizia tributaria di primo e di secondo grado) sono esecutive. Già anteriormente al D.Lgs. 156/2015, peraltro, la giurisprudenza di legittimità aveva sancito che l’efficacia immediata delle sentenze delle commissioni tributarie concernenti atti impositivi fosse già riconosciuta dal sistema. Essa doveva desumersi, oltre che dal generale rinvio effettuato dall’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 546/1992 alle norme del codice di procedura civile, e quindi anche all’articolo 282 c.p.c., anche sulla base dell’articolo 68 del menzionato D.Lgs. 546/92.

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