Con la sentenza n. 38725 del 04 ottobre 2012 la Corte di Cassazione, consolidando un nuovo indirizzo già precedentemente intrapreso, ha affermato che il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, nonostante la clausola di riserva contenuta nell’art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000, può concorrere con il delitto di bancarotta fraudolenta documentale.
Nella fattispecie in esame, il Pubblico Ministero aveva richiesto il rinvio a giudizio per i reati di cui agli artt. 5 e 10 D.Lgs. n. 74/2000 nei confronti del rappresentante legale di una società a responsabilità limitata in quanto lo stesso non aveva presentato le dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi ed IVA ed inoltre aveva occultato o distrutto in tutto od in parte le scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare disponeva il rinvio a giudizio dell’imputato per il reato di cui all’art. 5, mentre lo assolveva dal reato di cui all’art. 10 rilevando che la società era stata dichiarata fallita e, quindi, nei confronti del rappresentante legale era già stato chiesto il rinvio a giudizio per il reato di bancarotta fraudolenta documentale che, ai sensi degli artt. 216 comma 1 n. 2 e 223 del R.D. 267/42, punisce la sottrazione, distruzione o falsificazione, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, dei libri o delle scritture contabili; secondo il Giudice, la clausola di riserva contenuta nell’art. 10 del DLgs. 74/2000, “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, determinerebbe l’assorbimento del reato tributario in quello fallimentare.
Tale orientamento è peraltro ormai consolidato anche nella giurisprudenza di legittimità; in tal senso si è già espressa la sezione III della Corte di Cassazione con la sentenza n. 18191 del 05.04.2005 secondo cui: “Qualora l’impresa fallisca, la fattispecie di frode fiscale è assorbita in quella di bancarotta fraudolenta documentale e, quindi, è escluso il concorso formale eterogeneo fra i due reati”.
Il Procuratore della Repubblica presentava ricorso per Cassazione avverso la sentenza del GUP per inosservanza o errata applicazione della legge penale, nonché per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, contestando in particolare l’assorbimento della fattispecie tributaria in quella fallimentare e deducendo che, ai fini dell’operatività della clausola di riserva contenuta nell’art. 10 D.Lgs. n. 74/2000, la comparazione deve essere effettuata tra i reati in astratto, nel caso di specie differenti per elementi costitutivi, beni giuridici tutelati e fine specifico della condotta e in rapporto di specialità reciproca tra essi, e non in concreto, in relazione ai fatti storici addebitati. Il PM nel ricorso per Cassazione denunciava inoltre vizi di motivazione in ordine all’esclusione della finalità di evasione fiscale a fronte di un avviso di accertamento, emesso dall’Agenzia delle Entrate, estremamente dettagliato ed analitico.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, evidenziando che, ai fini dell’operatività della clausola di riserva di cui all’art. 10 del D.Lgs. 74/2000, occorre che vi sia identità o quantomeno omogeneità tra i beni giuridici tutelati dalle due norme; qualora le stesse tutelino beni giuridici differenti, l’applicazione della clausola di riserva renderebbe priva di tutela la persona offesa cui si riferisce la norma contenente detta clausola.
Nel caso in esame, secondo la Suprema Corte, l’art. 10 del D.Lgs. 74/2000 tutelerebbe l’interesse fiscale dello Stato, mentre l’art. 216 del R.D. 267/1942 sarebbe posto esclusivamente a difesa dell’interesse privato dei creditori del fallito, con la conseguenza che, applicando la clausola di riserva come nella sentenza di merito, l’interesse erariale dello Stato resterebbe privo di tutela penale.
La sentenza evidenzia inoltre che sarebbe diverso anche il dolo specifico dei due reati (fine di evadere le imposte sui redditi e l’IVA, ovvero di consentire l’evasione a terzi, per la fattispecie tributaria e fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, o di recare pregiudizio ai creditori, per quella fallimentare) che è elemento costitutivo dei due reati.
Vi sarebbero inoltre altre differenze che riguardano la non coincidenza dell’elemento materiale della condotta con riferimento alla documentazione (nel reato tributario ci si riferisce alle scritture contabili o ai documenti di cui è obbligatoria la conservazione, mentre nel reato fallimentare sono considerati i libri o le altre scritture contabili, anche se la loro tenuta non è obbligatoria) nonché gli effetti che la condotta deve produrre (nel reato tributario è richiesto che la condotta determini l’impossibilità di ricostruzione dei redditi o del volume d’affari, nel reato fallimentare, invece, essa deve impedire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari).
Per tali motivi, secondo la Cassazione, l’insieme delle componenti oggettive e soggettive delle due fattispecie ne evidenzierebbe le diversità e, di conseguenza, il reato fallimentare non assorbirebbe quello tributario.
Tale soluzione, già raggiunta in precedenti pronunce di legittimità (così anche Cass. 15 marzo 2010 n. 10332, Cass. 26 aprile 2011 n. 16360 e Cass. 4 giugno 2012 n. 21482), viene in tal modo a consolidarsi nella giurisprudenza della Suprema Corte.