Conferimento in trust dei proventi da attività illecita. La legittimità della confisca di prevenzione

La Corte di Cassazione è tornata a occuparsi della questione relativa alla legittimità della confisca di prevenzione nei confronti dei beni e delle somme di danaro derivanti da attività delittuose da parte di soggetti che avevano vissuto abitualmente con i proventi di tali attività illecite (avendo, tra l’altro, cercato di realizzare l’intestazione fittizia ad un trust dei beni acquisiti con i proventi della loro criminosa condotta).

Nel caso di specie, nei confronti di due coniugi, a cui era stata attribuita un’attività di ponderosa evasione fiscale, truffa ai danni della Regione Lazio, ed associazione a delinquere si era proceduto con confisca di prevenzione, ex articolo 24 D. Lgs. 159/2011, di vari immobili, autovetture, conti correnti quote sociali e, appunto, trust.

Tale provvedimento traeva il proprio fondamento dalla pericolosità sociale dei menzionati soggetti, in quanto gli stessi verosimilmente basavano il proprio sostentamento dai proventi delle contestate attività delittuose.

La ratio della misura, infatti, risiede nell’esigenza di impedire che beni di illegittima provenienza possano essere immessi nel circuito economico, con evidente lesione dell’interesse pubblico.

A seguito di conferma della misura da parte della Corte di appello, gli imputati avevano promosso ricorso per Cassazione al fine di ottenerne l’annullamento.

Il Giudice di legittimità, con la sentenza n. 53636 depositata il 28 novembre 2017 ha rigettato i rispettivi ricorsi.

Nello specifico, la Corte ha innanzitutto evidenziato che il provvedimento impugnato aveva “esposto precise indicazioni sulla provenienza illecita dei beni confiscati, perché costituenti il reinvestimento di proventi di attività criminosa”. Non solo. Richiamando giurisprudenza della Suprema Corte a Sezioni Unite, nella sentenza in esame si legge che “in tema di confisca di prevenzione, anche a seguito delle modifiche apportate alla Legge n. 575 del 1965, art.2 ter, comma 3, primo periodo, dalla L. 24 luglio 2008, n.125, spetta alla parte pubblica l’onere della prova della sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale del soggetto, nonché dell’illecita provenienza dei beni, dimostrabile anche in base a presunzioni, mentre è riconosciuta al proposto la facoltà di fornire prova contraria” (Sez. U. n.4880 del 26 giugno 2014).

Tale principio, secondo la Cassazione, giustifica come legittimo il ricorso a presunzioni di natura relativa, per determinare l’illecita origine dei beni conformante anche a quanto riconosciuto in pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Ulteriore affermazione assolutamente degna di essere riportata in questa sede è quella relativa all’indipendenza del giudizio penale nei confronti dei provvedimenti emessi in sede tributaria.

Più precisamente è opportuno riportare il seguente principio di diritto “le sentenze pronunciate dai giudici tributari e le determinazioni assunte nel procedimento amministrativo in merito ad operazioni commerciali, attestate da documenti contabili di cui in tesi accusatoria si assume la non rispondenza al vero, non contengono accertamenti di fatto vincolanti per la decisione riguardante l’applicazione di misure di prevenzione reali e la formulazione del giudizio di sproporzione tra redditi dichiarati ed attività svolte e valore dei beni acquisiti dal proposto, ma, se prodotte dalle parti nel relativo procedimento, sono soggette al libero apprezzamento”.

Ciò sta a significare, ancora una volta, che il giudizio penale è del tutto autonomo rispetto alle pronunce adottate in sede tributaria.

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