Argomento ancora per certi versi irrisolto è quello relativo al profitto del reato soprattutto se a conseguire un potenziale vantaggio oggettivamente determinabile sia stata una società a cui sia stata contestata la commissione di un reato rilevante sotto il profilo del D.lgs. 231/2001. Con la sentenza n. 51655 del 13 novembre 2017 la Cassazione affronta nuovamente la questione soffermandosi sull’oggetto del sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Si tratta di un caso di truffa aggravata e continuata perpetuata in danno alla società gestrice dei servizi aeroportuali dello scalo di Palermo, da parte dell’amministratore della società T. Il difensore e procuratore di T. proponendo ricorso in Cassazione, contesta le decisioni assunte sia dal P.m. sia dal G.i.p. che hanno disposto il sequestro preventivo in relazione al profitto (secondo la difesa erroneamente calcolato) con riferimento anche alle condotte anteriori al 28/11/2012 data in cui è entrata in vigore la L.. 190/2012 (c.d. “Legge Severino”). In merito, è stato evidenziato che la Legge Severino è intervenuta, modificando la disposizione dell’art. 322ter c.c. – richiamato dall’art. 640quater c.p. -, ad estendere il parametro applicativo di tale misura sanzionatoria anche per ciò che può essere definito il profitto del reato e non più soltanto con riguardo al prezzo. Viene richiamata altresì la dottrinale distinzione elaborata sui contratti pubblici che, in occasione della loro stipulazione, possono realizzare fattispecie di “reato contratto” o “reato in contratto”. Il sequestro preventivo si muove in diverso modo a seconda che ci trovi di fronte nell’una o nell’altra ipotesi. Ma ripercorriamo cosa si intenda per “reato contratto” e “reato in contratto” e con quali modalità essi si concretizzino.
Anche come rievocato dalla stessa Corte, in dottrina si ritiene che si qualifichi come “reato contratto” il contratto stipulato in violazione delle norme penali da considerarsi come nullo ove la norma violata abbia ad oggetto la stessa stipula dell’accordo. Mentre si definisce “reato in contratto” quello in cui ad essere violata è una norma che attiene al comportamento dei contraenti e pertanto non può dirsi completamente inefficace, ma semmai può costituire una fonte di responsabilità per le parti che hanno concluso l’accordo. La Corte così afferma che per il caso del “reato contratto” il profitto confiscabile è costituito dal ricavo lordo, contrariamente a quanto accade per il “reato in contratto” a prestazioni corrispettive ove il profitto viene identificato con il vantaggio economico derivato dal reato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato. La questione non è affatto nuova. Già con la sentenza della Cassazione sez. II 20 dicembre 2011, n. 11808 è stata sottolineata la stretta connessione tra il profitto del reato e la distinzione tra “reato contratto” e “reato in contratto”. Per il primo si intende il caso in cui vi è una vera e propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico, mentre per il secondo si allude a tutte le ipotesi in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide perfettamente con la stipulazione del contratto in sé, andando piuttosto ad incidere sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella meramente esecutiva del programma negoziale convenuto. Partendo da tali premesse si spiegano allora le conclusioni a cui pervengono i giudici di legittimità quando sostengono che se il fatto penalmente rilevante ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto in sé lecito il profitto del reato non equivale all’intero prezzo dell’appalto bensì al solo vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica. Per la precisione tale vantaggio corrisponde all’utile netto dell’attività d’impresa (in senso conforme anche la Cass. Pen. sez. II 22 febbraio 2012, n. 20976). Tali pronunce più risalenti dimostrano come ancora sia viva l’attenzione sul tema molto dibattuto in giurisprudenza e nella letteratura penale. Anche in tali occasioni si è discusso in merito ai reati di corruzione e truffa commessi in occasione dell’aggiudicazione di appalti e per gli illeciti amministrativi che possono essere di conseguenza contestati in capo agli enti. Non si tratta solo di chiarire cosa si intenda per “profitto” ai sensi dell’art. 322ter c.p. e dell’art. 19 del D.lgs. 231/2001, ma anche di individuare quali siano i criteri impiegabili nel concreto per calcolare tale profitto.
Distinguere tra le ipotesi di “reato contratto” e di “reato in contratto” è importante al fine di individuare il perimetro del profitto confiscabile: secondo la Corte infatti l’applicazione del criterio relativo all’”effettivo vantaggio patrimoniale al netto dei costi di esecuzione delle obbligazioni assunte con il medesimo contratto illecito” varrebbe solo per le fattispecie di reato in contratto. Nel “reato contratto” infatti, non essendo facile distinguere il profitto dall’utile netto si finisce inevitabilmente per confiscare o sequestrare tutto ciò che costituisce una “conseguenza economica immediata” del reato, diversamente da quanto accade per i casi di “reato in contratto” ove invece, incidendo soltanto nella fase di formazione e di esecuzione dell’accordo, è dato calcolare l’oggetto della confisca in base al parametro dell’utile netto dell’attività d’impresa.
Aspetto altrettanto non trascurabile è che, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 del D.lgs. 231/2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito dei un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone. Se in tale occasione la difesa ha eccepito che l’affidamento di incarichi di progettazione in via diretta previa parcellazione delle commesse ed elusione delle norme di concorrenza configurerebbe un reato in contratto, dall’altro lato la Corte non condivide tale posizione della società ricorrente, ritenendo piuttosto che in materia di appalto di opere pubbliche l’eventuale contratto che sia stato stipulato a seguito di una trattativa privata è nullo ex art. 1418 c.c. per contrasto alle norme imperative che impongono il rispetto delle regole di evidenza pubblica prefissate per la scelta del contraente, volte a salvaguardare il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione. Così ponendosi la nullità “a monte” del rapporto sinallagmatico, è stato ancora una volta sottolineato che nei cosiddetti “reati contratto” il relativo sequestro può avere ad oggetto l’intero prezzo del reato senza necessità di distinguere tra questo e il profitto.
Infine, viene chiarito che con riguardo alla confisca per equivalente, la legge n. 190 del 2012 non ha inciso particolarmente sugli artt. 640quater e 322ter c.p. ritenendosi che, anche prima della novella, la misura ablatoria disposta per uno dei reati previsti dall’art. 640quater c.p. potesse avere ad oggetto beni per un valore equivalente non solo al prezzo, ma anche al profitto. Si ricorda, infatti, che con la sentenza delle S.U. del 25 ottobre 2005 n. 41936 è stato affermato il principio per cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto verso la persona indagata per uno dei reati di cui all’art. 640quater c.p. può avere ad oggetto sia il prezzo sia il profitto del reato, in virtù del rinvio alla disciplina generale di cui all’art. 322ter c.p., dovendosi attribuire alla legge n. 190/2012 solo valore meramente ricognitivo di un orientamento già assunto da tempo dalla giurisprudenza di legittimità.
L’individuazione chiara e precisa dell’oggetto confiscabile, o sequestrabile in via preventiva, assume preminente importanza nei confronti degli enti collettivi proprio in ragione del fatto che essi possono essere ritenuti responsabili ogniqualvolta per fatti illeciti commessi dagli esponenti al vertice aziendale e/o dai dipendenti realizzati nell’interesse o vantaggio dell’ente medesimo. L’impatto che tali misure possono determinare sul generale andamento delle attività core e sulle risorse o altre disponibilità di cui sia dotata la società spinge la giurisprudenza a tornare ciclicamente sull’argomento offrendo linee di indirizzo univoche agli organi giudiziari incaricati di dare esecuzione a tali misure e ai professionisti che assistono le aziende nella predisposizione dei modelli organizzativi e di procedure. Solo in questo modo infatti l’Ente è in grado di dimostrare la propria intenzione di instaurare e mantenere rapporti trasparenti e duraturi sia con i rappresentanti della Pubblica Amministrazione sia con altre società concorrenti in occasione della partecipazione a bandi di gara o altre procedure ad evidenza pubblica.